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Terzo settore: il punto di vista di Research Dogma

Conversazione con Fabrizio Fornezza, Partner di Research Dogma

Fabrizio FornezzaFornezza buongiorno, lei opera nel mondo della ricerca sociale e di marketing da oltre trent’anni anche al servizio del terzo settore. Parliamo proprio di terzo settore. Voi come centro di ricerca e di supporto al marketing avete anche su queste tematiche una visibilità ed una esperienza di certo molto ampia.

Come è cambiato lo scenario nel mondo del Terzo settore negli ultimi 15 anni ?

I cambiamenti sono stati diversi e sono dovuti ai cambiamenti sociali che si sono susseguiti, in primo luogo. Pensiamo come è cambiata la sensibilità sociale in questi ultimi anni: i temi si sono man mano spostati dai valori etici, dalle grandi battaglie globali, fondamentali ma distanti,  al sostegno concreto qui ed ora e questo ha riguardato molti settori: dal successo delle campagne di supporto sociale con intervento sul territorio a favore delle famiglie, il buon andamento delle campagne relate al mondo della sanità e della ricerca scientifica (il Covid ha fatto molto in questo senso).

Gli stessi obiettivi 2030 dell’Onu, analizzati in trend nella loro percezione presso la popolazione italiana, hanno mostrato  un cambiamento significativo. Ad esempio mentre al primo posto delle graduatorie degli obiettivi più condivisi fra il pre ed il post Covid sono sempre rimasti i goal riferiti all’acqua e ai temi climatici, il terzo posto è cambiato in modo significativo nel tempo. Nel pre-covid, 2019 il tema della crescita e della sicurezza economica per le persone ha scavalcato molti temi passando dall’ottavo posto al terzo del ranking delle “cose che contano” per gli italiani.

Una ricerca recente promossa da Fineco e svolta da noi proprio sul tema delle cose che contano per gli italiani ci ricorda che se nei primi posti ci stanno temi “privatistici” (gli affetti,  la salute, i viaggi, il tempo per sé stessi), al quinto posto delle cose che contano troviamo il tema della cultura, non solo quella alta ma anche quella di fruizione alla portata di tutti. E nelle prime dieci cose stanno anche ovviamente i temi di una vita a contatto con la natura, del volontariato, dell’ambiente e della sostenibilità in generale.

Ma come appare evidente il nuovo clima sociale – imbevuto di concretezza e spesso anche di un certo scetticismo verso le dichiarazioni di principio – richiede che il terzo settore  apprenda nuove modalità di interazione, molto più personalizzate e vicine alle persone.

E’ molto vivace il dibattito su un aspetto strategico per il settore: il fund raising. Secondo alcuni enti di ricerca l’ammontare globale del fund raising è di molto diminuito…secondo altri invece è addirittura aumentato. Non è una contraddizione?

Lo è ma esprime proprio una percezione di forte mutamento delle sensibilità. Ci sono alcune missioni sociali che stanno crescendo il consenso, ce ne sono altre che magari potrebbero avere un potenziale ma ancora faticano a trasformarlo in uno storytelling vicino alle sensibilità delle persone. Pensiamo ad esempio come è cambiato il concetto di supporto ai profughi negli ultimi 2 anni. La guerra in Ucraina ha convinto molte famiglie italiane addirittura ad ospitare donne e bambini fuggiti dalla guerra, anche in territori italiani di solito riluttanti verso queste tematiche. Una sensibilità straordinaria che probabilmente sta cambiando in questi mesi sotto la spinta di una nuova onda migratoria dal sud del mondo.  Oggi questi temi sono molto delicati ed ogni organizzazione deve sapere gestire – anche con lo strumento della ricerca sociale – le sue potenzialità ed i suoi storytelling, sapendo che “one fits all” non funziona, nemmeno per il terzo settore e che quello che funzionava un anno fa non è detto funzioni ancora.

Secondo le vs. ricerche, quali sono i problemi dei donatori nel donare ?..colpa della crisi economica, del long Covid, dei troppi attori richiedenti donazioni, la poca fiducia nell’intero settore dopo i molti scandali ? o altro ?

Il tema del donare è appunto diventato più complesso. C’è stato qualche scandalo di troppo, ma non credo che sia questo il vero vincolo. Quello che dicevamo prima è sicuramente un motivo che può rallentare la charity, anche considerando il clima economico abbastanza preoccupato. Ma ci possono essere anche altri piccoli aspetti che meriterebbero un approfondimento. Faccio l’esempio delle modalità preferite dal terzo settore che spesso cerca di fidelizzare i donatori con la pratica dell’addebito annuale sul conto corrente. Nelle ricerche molte persone – anche quelle ben disposte – storcono la bocca, la richiesta dell’Iban, anche se modificabile in ogni momento da parte del donatore, è una richiesta psicologicamente ritenuta troppo vincolante. In qualche misura lede la privacy e la libera volontà del donatore. Questi temi sono spesso gestiti dal terzo settore con un approccio talvolta troppo orientato al risultato (ed è comprensibile), ma la relazione amorevolmente impositiva non è detto che funzioni così bene con tutti. Anche qui, bisogna saper innovare, studiando con il donatore nuove soluzioni (e la ricerca può dare una mano). Detto che anche sul coinvolgimento del donatore ci sarebbe da dire e da lavorare: quali info personalizzate fargli arrivare, su quale canale, come ingaggiarlo,  come dialogare con lui.  Ci sono tanti temi di gestione della strategia e della gestione del capitale umano (volontari e donatori) che richiederebbero nuove soluzioni bottom up, ovvero studiate con forme di co-creazione con gli stessi interessati.

Un elemento che è parso condiviso da molti “ donatori “…il fatto che molte onlus sono poco innovative o sono gestite da profili apicali un po’ troppo datati, pur nella loro disponibilità ed impegno. Cosa emerge dalle vs. ricerche ?

Senza mancare di rispetto a nessuno, questa sensazione è abbastanza vera.  Le persone magari non conoscono i leader delle organizzazioni (salvo pochi nomi dotati di personal equity forte e che spesso danno il nome o quasi all’organizzazione). Ma la percezione di innovazione potrebbe essere ampiamente migliorata. Ma non è un problema di immagine di innovazione, è un problema di innovazione praticata. Oggi ci servirebbe un terzo settore molto meno ideologico e molto più pratico, con una capacità di vicinanza alla società ed ai donatori, maggiore dell’attuale in molti casi.  Questo discorso vale anche per il mondo della charity corporate. Interfacciarsi oggi con il mondo del corporate alle prese con le tematiche ESG, non più legate solo ai temi immateriali dell’immagine del Brand, ma molto più calate nel processo produttivo: del modello di business e nel modello di gestione delle relazione con il capitale umano e le comunità sul territorio.

Secondo voi, quali strumenti potrebbero aiutare le onlus serie a migliorare le loro prestazioni nelle attività di progettazione ed azione nel fund raising ?

Capacità di lettura del cambiamento su tutti gli stakeholder, approccio pragmatico e non ideologico,  professionalità e garanzia di processi e rapporti fra mezzi e fini, tanta comunicazione. In questo senso anche le certificazioni sono uno strumento utile, quando vengono usate per costruire organizzazioni efficaci ed efficienti e non solo come pura medaglia da appendere al proprio stendardo istituzionale.

Una domanda infine sul tema caldo del RUNTS. Perché la mera iscrizione al RUNTS non consente di prevenire i rischi di frodi e malversazioni o comunque cattivo utilizzo delle risorse impiegate ?

Vale quanto detto sopra: l’iscrizione al RUNTS è una opportunità (da cogliere), il sistema delle certificazioni può veramente costituire un elemento di ulteriore rinforzo. Ma dietro ci vuole una strategia ed una pratica che trasformino le opportunità in volani per il proprio purpose istituzionale.

A latere delle iniziative ufficiali, sono in corso delle iniziative specifiche di professionisti vicini al mondo del Terzo settore ed impegnati nel fornire strumenti di qualificazione più concreti e puntuali perché super partes. Quale è la sua idea in merito? 

Anche se non sono un espertissimo di certificazioni – a parte la partecipazione qualche anno fa al team UNI che emendò lo standard ISO 22222 ( ad integrazione della Mifid ) – penso in generale che sia utile affiancare approcci di certificazione concreti che aiutino sia il terzo settore che i suoi stakeholder e finanziatori a controllare processi e comportamenti, integrando normative diverse su diversi livelli. La credibilità di uno strumento è sempre legate al sistema che lo mette in pratica, dalla credibilità delle asseverazioni e del percorso di controllo. Pertanto pur evitando gli eccessi di complessità e formalismo è evidente a tutti che nei tempi attuali – e dopo i troppi scandali accaduti – lo stakeholder sia meglio garantito da sistemi che riconosce come credibili anche perché attuati secondo i modelli applicativi gestiti da strutture capaci e riconoscibili. I donatori fortunatamente hanno finalmente capito che le autocertificazioni o le asseverazioni non legate a principi sani e imprescindibili di assoluta terzietà non sono più attendibili. E siccome la riforma del Terzo settore incoraggia l’adozione di strumenti di autocontrollo  ( art. 92 Attività di monitoraggio, vigilanza e controllo  ) cosa c’ è di meglio se l’auto controllo è asseverato da un riconsulto organismo indipendente  che assevera le attività controllate, assicurando la rigorosità e l’adesione alla riforma ?

Va da se che le persone o imprese donatrici attente preferiranno sempre più inevitabilmente soggetti del Terzo settore che si uniformano a questi principi.

© Research Dogma 2023

2023-04-10T09:01:33+01:00Aprile 6th, 2023|Terzo Settore|
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