Prima certificazione Bureau Veritas Italia: Il caso del Consorzio Casalasco
Guardo il mio carrello della spesa: dietro ogni prodotto, c’è una storia, fatta dalle aziende e dalle persone che – presso quelle stesse aziende – prestano il proprio lavoro. Sono mani, macchine, intelligenze che hanno contribuito a dare forma e sostanza al prodotto che acquisto, che mangio, che indosso, che uso nella mia quotidianità.
Quando scelgo un prodotto, vorrei poterlo fare anche tenendo conto delle garanzie che quel prodotto mi offre: non è facile, tuttavia, davanti allo scaffale del supermercato, identificare i prodotti in grado di fornire tali garanzie.
In un mercato globale, il consumatore trova sullo scaffale prodotti che arrivano da lontano, anche da Paesi che non offrono ai lavoratori le stesse tutele a cui siamo abituati; è possibile che questi prodotti siano stati immessi sul mercato dopo numerosi passaggi, attraverso broker che sono poco trasparenti circa i soggetti da cui acquistano; un semilavorato può passare di mano in mano, in aziende diverse, subendo numerose lavorazioni e trasformazioni, prima di assumere la sua forma finale con la quale è immesso sul mercato.
Per cercare di dare una risposta alle domande del consumatore, nell’Aprile 2015 è nata la certificazione “Social Footprint”, che aiuta – con un’etichetta e con informazioni chiave sul sito web aziendale – a identificare la filiera.
L’idea alla base del Social Footprint è molto semplice: il consumatore deve poter “vedere” cosa c’è dietro un prodotto, in termini di origine delle materie prime e di ubicazione dei principali processi produttivi; inoltre il consumatore deve poter avere delle garanzie circa il rispetto dei diritti dei lavoratori nella filiera produttiva: solo con queste informazioni potrà scegliere in modo consapevole.
Il settore alimentare per primo ha colto le potenzialità di questo schema di certificazione, anche in ragione delle criticità che affliggono alcune filiere: il social footprint è stato visto come uno strumento per fornire garanzie al consumatore, sempre più preoccupato anche a causa delle inchieste e degli articoli pubblicati sui principali media, che negli ultimi anni hanno messo a nudo alcuni drammi: le filiere del pomodoro, delle arance, delle fragole sono spesso sulle pagine dei giornali, per violazioni dei diritti umani.
La prima azienda del settore alimentare a volere il Social Footprint è stato il Consorzio Casalasco del Pomodoro, importantissima realtà del Nord Italia che vanta il marchio Pomì. Il Consorzio Casalasco si trova ad operare in une filiera – quella del pomodoro – che nell’immaginario collettivo è associata a migranti senza contratti e senza tutele, costretti a vivere in ghetti privi di ogni decoro, spesso sfruttati da “caporali” che – con la loro intermediazione illegale – rendono ancora più misera e vessata la condizione di questi lavoratori.
Ignorare tali piaghe è sbagliato tanto quanto generalizzare: esistono realtà – come il Consorzio Casalasco del Pomodoro e molti altri – che da anni producono passate, salse, concentrato di pomodoro etc. non solo nel pieno rispetto dei lavoratori, ma anche contribuendo allo sviluppo dell’economia locale e all’inserimento lavorativo di giovani lavoratori, italiani e non.
Con il Social footprint, il Consorzio Casalasco si racconta nello spazio di un’etichetta: ci parla delle sue radici, localizzate tra le province di Cremona, Parma, Piacenza e Mantova; ci racconta della relazione stretta con gli oltre 200 soci diretti e con le organizzazioni di produttori che conferiscono il proprio pomodoro, tutto proveniente dalle regioni del Nord Italia.
Il Consorzio ci racconta anche di quali trasportatori aiutano a movimentare la merce dal campo allo stabilimento e all’interno della zona produttiva: ogni camion è tracciato e nessun camion può entrare con il prezioso carico rosso, se non è stato identificato con l’apposito codice che ne indica la provenienza.
Nessuna informazione è trascurata: persino i fornitori degli imballaggi primari, che “contengono” il prodotto, e degli imballaggi secondari, che rappresentano l’unità di vendita alla grande distribuzione, sono indicati.
Nello spazio di un’etichetta, si presenta ai nostri occhi l’impronta sociale del Consorzio Casalasco del Pomodoro: un’azienda che dà lavoro a oltre 1000 persone e che alimenta un indotto importante, come testimoniato dagli oltre 500 fornitori basati al 99,6% in Italia.
Ma queste informazioni “statistiche” di per sé potrebbero non bastare a motivare il consumatore “socialmente responsabile”: ciò che fa la differenza è la esplicita assunzione di responsabilità del Consorzio nella tutela dei lavoratori, sia al proprio interno che nella propria filiera. Una responsabilità che è fatta da impegni sottoscritti formalmente, dai fornitori diretti del Consorzio, e da un’attività di monitoraggio in campo, che il Consorzio dichiara ed dichiarata su ciascuna etichetta, con un range che va dal 62% al 94%, a seconda del tipo di prodotto.
Vi aspettavate il 100%? Quello è l’obiettivo a cui tendere, è il “mondo ideale”. Nel mondo reale, queste percentuali sono degne di nota. Sono infatti ancora una minoranza le aziende che si impegnano a raccogliere informazioni e a auditare i propri fornitori, allo scopo di verificare il rispetto della tutela dei lavoratori. La maggior parte preferisce “non chiedere e non sapere”: i fornitori sono selezionati in base alla qualità del prodotto, alla competitività del prezzo, alla tempestività delle consegne… ma per il resto, la tutela dei lavoratori resta una tematica inesplorata.
Ecco che la certificazione Social Footprint porta agli occhi del consumatore due elementi fondamentali: traccia la filiera (quanti soggetti, e relativa ubicazione) e esprime la percentuale di fornitori monitorati sugli aspetti di tutela dei lavoratori.
L’etichetta Social Footprint è destinata a generare una “competizione virtuosa” tra le aziende, una concorrenza basata non tanto sul prezzo quanto sulla trasparenza e sulla reputazione.
Il consumatore è maturo per raccogliere questa sfida: recenti indagini hanno dimostrato che la sensibilità del consumatore è fortemente aumentata negli ultimi anni, grazie anche all’opera dei media, e che la maggioranza dei consumatori chiede maggiori informazioni sulla eticità dei prodotti; conseguentemente, questa maggioranza è anche pronta a pagare un prezzo leggermente più alto pur di acquistare prodotti “puliti”, ossia, non macchiati da lavoro nero, caporalato, violazioni delle norme fondamentali in materia di sicurezza sul lavoro, orario di lavoro e retribuzione.
Il Social Footprint è una idea semplice che vuole cambiare il mondo: il consumatore vuole esercitare la propria sovranità e vuole scegliere le aziende pronte a fornire informazioni e garanzie.